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AGRICIVISMO: un’idea diversa di città

Articolo di: 
   del: 10 maggio 2011

Alcuni giorni fa ho partecipato ad un workshop organizzato dall’Urban Center di Bologna, incentrato sul tema del rapporto tra città contemporanea e paesaggio agrario.
Mi aspettavo di ritrovare tutti i candidati sindaco per Bologna, o almeno quelli (e sono la maggior parte) che da un paio di mesi si riempiono la bocca di espressioni come “stop al consumo di territorio”, “sviluppo verticale”, “tetti verdi” e via dicendo.
Pensavo sarebbero venuti a prendere spunto, a rinfrescarsi l’anima con qualche idea innovativa di spazio urbano.
Ovviamente mi sbagliavo.

Ma non me ne rammarico, perchè ho avuto il privilegio, insieme ad uno scelto numero di studenti appassionati, curiosi e motivati, di ascoltare il professor Richard Ingersoll che illustrava il meraviglioso concetto di AGRICIVISMO.
Riporto qualche spunto dal suo intervento, certa che le sue parole accenderanno moltissime idee per la nostra città:

1) Il nostro modo di pensare lo spazio è antiquato anche nel lessico: ancora ci immaginiamo la città al centro [dentro] e la campagna intorno, sullo sfondo [fuori], mentre è sempre più evidente che «senza accorgersene la città è scomparsa», diluita nello spazio agricolo che via via è stato inghiottito dallo «sprawl» [letteralmente: sdraiato], la città diffusa senza forma né limite. Suoi ingredienti sono i centri commerciali, le tangenziali, i parcheggi, le villette, i vuoti…

2) il cittadino è sempre più ridotto a “turista” perchè appartiene sempre meno al suo luogo e ne usufruisce solo attraverso il consumo.

3) il paesaggio agrario sopravvissuto è percepito come passivo ed estraneo (in quanto non fruibile e “altro”) rispetto allo spazio urbano.

4) siamo abituati a pensare agli orti urbani come a un modo di occupare gli interstizi della città, di riempire con qualcosa di vivo, bello e utile gli spazi che il cemento lascia liberi, per scelta o per sbaglio.

5) l’agricoltura, attraverso il Parco Agricolo Urbano (cioè un luogo a metà strada fra orto urbano e parco pubblico), è uno degli strumenti per restituire ai cittadini il loro spazio e il loro ruolo. Riportare la campagna “dentro” significa recuperare per tutti la fruibilità del paesaggio agrario, combattere il degrado degli spazi abbandonati grazie alla nuova responsabilizzazione del cittadino-coltivatore, garantire la possibilità di autoproduzione (e magari di scambio) di cibo di qualità a fasce rilevanti della popolazione. In questo si articola l’”agricivismo“.

6) nel mondo c’è una grande tradizione di parchi agricoli urbani che si snoda lungo tutto il Novecento: da Chateau Villandry nella Loira (1906) agli “orticelli di guerra” (famoso nel 1942 quello di Milano che rendeva coltivabile perfino la piazza del Duomo!), agli Schrebergarten tedeschi e olandesi che dagli anni ’50 e ’60 hanno fatto scuola mostrando il felice connubio tra orti e giardini pubblici, ai roof garden diventati popolari (e insostituibili) nel Giappone e nella New York degli anni ’90.

Credo che questo ci possa dire molto della città che potremmo scegliere di progettare e vivere: le possibilità sono infinite, anche dove sembra che il cemento abbia soffocato ogni possibilità di futuro. Gli esempi nel mondo di piccoli miracoli verdi anche nelle metropoli più caotiche non mancano: occorre studiarli, portarli a conoscenza dei cittadini e organizzare dei veri percorsi partecipativi per decidere quale volto vogliamo dare alla nostra città.

Un’ultima suggestione mi ha fatto sognare:

citando il motto dei Guerrilla Gardeners di Berkeley, Ingersoll ha ricordato che L’ASFALTO NON E’ PER SEMPRE, si può sempre togliere…

Insomma, SI – PUO’ – FARE!

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