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Giorno del ricordo – Il dovere di restituire dignità ad una tragedia coperta da 50 anni di silenzio

ricordo todel
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Discorso di Marco Piazza in qualità di Vice Presidente del Consiglio Comunale di Bologna, in apertura della seduta solenne per il giorno del ricordo 10 febbraio 2020

(qui il video: https://www.youtube.com/watch?v=nvV4lFh3lYU)

Buongiorno a tutti

Signor Sindaco signori consiglieri autorità civili e militari che vendo presenti numerosi, gentili ospiti buongiorno a tutti.

Grazie della vostra presenza, benvenuti a questo consiglio comunale solenne per celebrare il giorno del ricordo istituito dalla legge (n. 92/2004) dal titolo “Istituzione del giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale”

 

Un caro saluto in particolare agli studenti presenti in aula, sia gli studenti premiati in Sala Rossa  poc’anzi per il concorso indetto da ANVGD che  gli  studenti dell’ Istituto Belluzzi Fioravanti, Scarabelli di Imola, Istituto Ghini di Imola, Scappi di Castel San Pietro, e gli studenti dei Licei scientifici di Bologna Fermi e Righi.

La vostra presenza qui, cari ragazzi, è particolarmente importante e testimonianza vera dell’efficacia della promozione della conoscenza. Ho ascoltato un brano estratto da uno dei testi premiati ed è evidente di quanto il lavoro fatto stia dando i suoi frutti.

 

Un saluto e un ringraziamento all’associazione Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD) sezione di Bologna e al suo Presidente Marino Segnan che sempre si impegna per le celebrazioni del  giorno del Ricordo a Bologna e per questo consiglio solenne.

Ma il giorno del ricordo non deve essere un evento isolato, celebrato una volta all’anno, ma un momento per rilanciare le continue attività per la conoscenza di questo pezzo di storia e per questo l’associazione, molto opportunamente, organizza durante tutto l’anno anche seminari di formazione per docenti ed un interessantissimo viaggio del ricordo: sono iniziative che si svolgono durante tutto l’anno. Ci tengo in questa sede a dire un grazie e a complimentarmi con l’associazione perché, come spesso accade, le persone che hanno tanto sofferto e, nel loro caso, portano i segni di una tragedia attraverso le generazioni, hanno qualcosa da insegnare agli altri. E loro in questo sono molto bravi: hanno saputo dare tanto a tante persone e anche me. Di questo li ringrazio, ma è anche un’opportunità per complimentarmi per l’efficacia della loro azione.

 

Do infine il benvenuto al prof Luciano Monzali, che interverrà subito dopo di me in qualità di relatore. Il prof Monzali professore ordinario di Storia delle Relazioni internazionali dell’università Aldo Moro di Bari. Autore e coautore di oltre 70 pubblicazioni in gran parte su questo tema, vincitore anche di un paio di premi è un grande esperto che oggi ci onora della sua presenza.

 

 

Oggi ricorrono esattamente i 73 anni della firma del trattato di Parigi del 10 febbraio 1947, con cui venne imposto all’Italia, uscita sconfitta dalla seconda guerra mondiale, di rinunciare alle città di Fiume, Zara e di quasi tutta l’Istria.

Dal giorno dopo, l’11 febbraio, l’esodo dei nostri connazionali italiani di quelle terre assunse dimensioni colossali. Abbandonarono le loro case, le loro terre, la loro cultura… tutto… tra le 300 e 350 mila persone.

Si svuotarono intere città, nei mesi precedenti migliaia di italiani erano stati prelevati dalle loro case ed erano scomparsi creando un clima di terrore. Si seppe che erano stati uccisi, molti buttati nelle foibe morti o ancora vivi. Si svuotò anche Pola, che fino ad allora era stata gestita dagli alleati e fuori dal controllo jugoslavo, ma la cui popolazione era rimasta scioccata dalla strage di Vergarolla che pochi mesi prima aveva causato la morte di 65 persone.

 

Perché è importante ricordare?

Ne parlavo poco fa in sala Rossa con gli studenti, durante la cerimonia di premiazione dei loro elaborati. Uno di loro ha detto che è importante conoscere i fatti.

La mia generazione questo pezzo di storia non l’ha studiata, nei libri di allora non era riportata, non se ne sapeva nulla. Era coperto da un coltre di oblio forzato.

C’è voluta una legge, la 92/2004, per iniziare a parlare di questa vicenda complessa, togliere il velo e restituire quindi all’Italia un pezzo della sua storia, importantissima per capire le vicende successive, il dopoguerra e gli assetti attuali del nostro paese, ma anche comprendere meglio gli equilibri internazionali di allora e degli anni successivi.

Oggi possiamo anche ragionare sui vari motivi di quel silenzio che aveva oscurato quelle dolorose vicende, tra questi la scelta di non importunare un dittatore come Tito, che non era allineato al blocco sovietico, oppure ancora la non volontà di accettare che noi la guerra l’avevamo persa e che avevamo pagato un prezzo molto alto per questo.

Finalmente oggi questa storia è patrimonio consolidato di cui sono stati ricostruiti i fatti con testimonianze e ritrovamenti di corpi nelle foibe. Oggi nessuno può più negare. Una volta non si sapeva nulla, ma oggi, dopo anni di studi, negare è un esercizio molto forzato che deve ignorare evidenze e dati di fatto.

 

 

Ma il ricordo è solo questo? E’ solo storia?

Un’altra studentessa ha detto che ricordare è importante anche per trarre degli insegnamenti. Capire come evitare una tragedia che non si deve mai più ripetere: migliaia di persone brutalmente assassinate solo per la colpa di essere italiani, centinaia di migliaia costretti all’esodo.

Questo è il risultato dell’esaltazione delle differenze per esasperare divisioni.

Questa è stata la tragica conseguenza dei nazionalismi; di quella politica, attuata già da Francesco Giuseppe dopo la caduta di Venezia, per governare quello che lui allora chiamava non il suo popolo, ma “i suoi popoli”, attuando la strategia del “divide et impera”, e cioè privilegiare alcuni per tenere a bada altri e governare meglio tanti popoli diversi, persone che avevano vissuto insieme per secoli pacificamente. Queste persone erano indotte a vedere differenze nel vicino di casa che per generazioni avevano frequentato, a sentirsi diversi, erano indotte al contrasto.

Questi germi di differenze, già instillati durante l’impero austro ungarico, vennero esasperati dalla follia del fascismo che aveva fatto del nazionalismo una bandiera e poi ancora dal sanguinario nazionalismo comunista di Tito.

 

 

 

Ma il ricordo secondo me è ancora di più.

C’è un altro motivo, che ritengo un dovere per le istituzione: quello di restituire dignità ai nostri connazionali dei quelle terre, che hanno pagato un prezzo più alto di altri per le follie della 2° guerra mondiale e per la sconfitta italiana.

Connazionali che hanno pagato con migliaia di morti il nazionalismo di Tito, la pulizia etnica che attuava per poter poi rivendicare, in sede di conferenza di pace, quelle terre come slave; persone uccise con la falsa accusa di essere fascisti o collaborazionisti ma la realtà era solo l’interesse su quelle terre.

Una tragedia che ha prodotto anche  un numero enorme di esuli, molti, forse 350mila, certamente tantissimi, troppi, costretti a lasciare la loro casa, tutto ciò che avevano, la loro terra, la loro storia, vita, cultura, per affrontare un destino incerto non per scelta ma per obbligo, per venire in Italia e trovare un paese in ginocchio che faceva fatica ad accoglierli degnamente e che quindi li sparpagliò in 120 città diverse, provocando una ulteriore tragedia nella tragedia, dilaniando famiglie e separando affetti e parenti, in campi profughi che erano casermoni immensi, dove le famiglie erano divise solo da lenzuoli appesi a dei fili, dove si moriva di freddo, ma anche per suicidio dovuto a depressione, perché la gente non riusciva a sopportare le condizioni di vita del campo profughi, abituati com’erano a lavorare e ed essere autosufficienti. Lì trovavano solo assistenzialismo e depressione. Dobbiamo restituire dignità a questa tragedia che per troppo tempo questa gente ha portato dentro di sé pagando un doppio prezzo: quello del silenzio che calava sulla loro storia, e che impediva loro di condividere almeno il dolore.

A volta parlare di qualcosa ci aiuta, loro hanno dovuto vivere una cosa terribile e sopportarne ogni conseguenza senza poterne parlare, abbiamo 50 anni da recuperare come istituzione e dobbiamo far sentire la nostra vicinanza a queste persone: questo è il motivo più importante per cui si celebra oggi il ricordo.

 

 

Oggi parleremo non tanto delle cause storiche già analizzate nei precedenti consigli solenni, grazie al prof. Monzali ci soffermeremo  sul contributo che queste persone hanno dato allo sviluppo del paese. Tra questi cito in particolare il prof. Carlo Descovich che divenne una sorta di faro degli esuli, che aveva scelto Bologna per vivere avendovi studiato in precedenza. Era un medico. Fu il fondatore dell’ISEF dando un grande contributo allo sviluppo del nostro paese. Ringrazio la famiglia oggi presente che ci onora con la sua presenza. Cito il prof. Descovich perché quest’anno il comune di Bologna ha individuato un’area in via Codivilla di fronte a s. Michele in bosco che verrà a lui intitolata; quindi un esule istriano sarà ricordato per il contributo che diede allo sviluppo del paese.

C’è da dire che 80 mila di questi esuli dopo essere stati obbligati all’esilio scelsero dolorosamente di emigrare, esuli per obbligo emigranti per scelta, e si sparpagliarono ulteriormente chi in Argentina, chi  in Australia dissolvendo una cultura tutta italiana che è vero che non ha più una terra ma che secondo noi deve essere preservata. Proprio per questo l’anno scorso come ufficio di presidenza abbiamo promosso la pubblicazione di una antologia dove abbiamo raccolto un indice di brani di quella cultura italiana che si era sviluppata in quelle terre che dobbiamo assolutamente preservare e non dobbiamo perdere.

 

Ho avuto la fortuna di ascoltare direttamente la testimonianza di Fiore Filippaz classe 1947 che ha vissuto come profuga per 12 anni nel campo di Padriciano (qualcuno ci restava per giorni, qualcuno per mesi, altri, come lei, per anni) e la cui sorella piccola morì di polmonite , pensate, le condizioni dei campi profughi erano tali che non c’era la possibilità di salvare una bambina; questa esperienza la segnò talmente che scelse di dedicare la vita ad aiutare gli altri. Mi sono segnato una sua frase che ha detto mentre la ascoltavo, voglio citarvela: “Dopo quello che ho vissuto, non ho mai trovato il coraggio di avere dei figli per paura che accadesse a loro quello che avevo vissuto io”; Questo è il segno sincero della tragedia che hanno dovuto vivere e portare dentro nel silenzio dell’oblio che aveva coperto la loro storia. Storia della quale non hanno potuto parlare per 50 anni e noi, con questo consiglio solenne, il sedicesimo dalla promulgazione della legge 92, oggi adempiamo a questo grandissimo dovere che per me è la più importante motivazione: non soltanto mantenere vivo il ricordo, ma anche restituire dignità alla sofferenza dei nostri fratelli Italiani che hanno avuto 50 anni di ingiusti silenzi

 

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